giovedì 21 agosto 2008

Collegare l'iMac al Televisore Lcd

Dato che spesso mi capita di voler vedere dei video autoprodotti, o una serie di immagini sul televisore, inizialmente masterizzavo su CD riscrivibile e lo inserivo nel lettore che legge anche DivX e jpg. Oltre a questo lettore Philips ho anche un Piooneer Dolby Surround.
Volendo accorciare la procedura, e disfarsi del lettore Philips, ho pensato di vedere come riuscire a collegare l'iMac con il televisore Samsung Lcd.

Cominciamo con il vedere di quali ingressi e uscite dispongono i due apparecchi. Questo è il pannello posteriore del Samsung:
Mentre dietro l'iMac abbiamo quanto segue:
L'ultimo connettore dell'iMac è un mini DVI che presenta in uscita il segnale Video. Per connettere questa uscita al televisore abbiamo due possibilità. Connettere il mini DVI con la porta PC (che è una VGA) della sezione PC-IN del televisore oppure connettersi sulla porta HDMI/DVI-IN.
Sul manuale del televisore un passaggio non molto chiaro sostiene che si otterrebbe solo una schermata blu collegando un computer alla porta HDMI. Il collegamento si realizzerebbe con l'apposito cavo della Apple, che trasforma il mini DVI in DVI: Adattatore Apple Mini-DVI/DVI
Quindi, dati questi possibili problemi, la miglior soluzione è quella che prevede il collegamento con la VGA. Anche per questo c'è un cavetto, l'Adattatore Mini-DVI/VGA Apple

Che trasforma la mini DVI in VGA.

martedì 1 aprile 2008

Il salto nel mondo Apple

Il salto nel mondo Apple è stato fatto, con l'acquisto di un bellissimo iMac 20". Dopo pochi minuti di ambientamento nel nuovo sistema operativo Leopard, si è in grado già di fare molteplici cose. Si recuperano le cassette miniDv dei vari viaggi e si comincia a lavorare alla post-produzione....un facile montaggio video con iMovie.
Ecco il risultato della prima sessione di lavoro di Alessandra.

Viaggio a Venezia


Tema sul tema in tema

Quello che segue è lo svolgimento di un tema la cui traccia fu data da una Professoressa illuminata delle superiori (14/11/1988).

Ci sono cose che il tempo confina in te, ci sono fatti, immagini, sogni, che l'ipocrisia ti impedisce di dire e c'è un colmo interiore, un gas che tenta di uscire. C'è l'illusione che questa società possa farti parlare, ma ti accorgi che le tue parole s'infrangono nell'aria notturna; rimani ore a parlare con la tua città, finché riversi gocce del discorso su di un sudicio biglietto raccolto su quelle scale, che seguirà la sorte degli altri, accocolati ai piedi di quel lampione al Campidoglio.

Sì! Lì c'è il nostro dire, i nostri dolori, e quella ormai immancabile adolescenza, nascosta tra quelle fessure, un nuovo cuore disciolto nella distrazione cittadina. C'è un ricordo, una convinzione pian piano defunta, che il "Tema" fosse una chiave per aprire un contatto con il mondo e tutto ciò che il tema ascoltava, lo sentivano tutti. Ora so che il tema è più buio del nostro io, in esso fallisce il senso dello scrivere, in esso si sprecano parole e il pensare rimane circondato dal nulla. E quale più amara sorte se non quella di mancare il compimento di uno sperato significato? E giacciono in qualche modesto luogo i propri sbadigli di felicità, e quei francobolli di dolore, muti e senza domani in attesa che qualche loro simile li raggiunga in quel letargo eterno.

Eppure quando incontro un foglio di carta, la mia penna vuole scrivere, perché quel gas vuole uscire, ormai stanco di leggere la tristezza negli occhi della gente e tacere al cospetto del mondo. Ho mille cose in testa, ognuna diversa, intensa, ognuna con pari desiderio di uscire e di gridare, mentre sono costretto nella "tortura", a spiegare cos'è la "tortura", e tutto al fine di, tutto per riuscire a raggiungere la sufficienza, per vedere scritto il 6 accanto a queste parole. Ma io sono convinto che il pensiero umano sia più importante di qualsiasi 10. Così fatta la scuola è sbagliata. E' assurdo che io abbia a perdere due, quattro o anche sei ore, per scegliere tra le parole che gli anni, hanno impresso, quelle giuste, perché possa raggiungere un numero.

Vorrei ora volar via, raggiungere un prato e sdragliarmi, guardando negli occhi il sole, senza che nessuno possa raggiungermi con il suo vociferare. Vorrei ceh anche lei volasse da quella allagata città, per raggiungere quella candida spiaggia verde e posasse quel suo sorriso sopra i miei occhi chiusi. Vorrrei che la mia amata città mi rispondesse, vorrei occhi liberi da lacrime, ma non posso avere che un foglio di carta come una distesa di neve che aspira a farsi calpestare.

O foglio d'immancabile luce, o tana della mia soggettiva verità, a te mio ultimo ascoltatore, porgo queste parole, come fiori su una tomba ormai svuotata, a te dedico i miei pensieri in queste ore, perché tu sia riempito e non rimanga astratta neve bianca. La neve che dà rappresentanza ad un modo di vivere, quello senza occhi che brillano, senza aliti speranzosi di cogliere l'armonia della luna, in mezzo al mare dell'incanto, ove ogni voluta cosa riesce ad esssere compiuta.
Parole, cose che riescono anche nella favola ad essere scontate, che riescono a distruggere tutto quello che gli occhi hanno creato. Ma in fondo è anche peggio, quando esse non riescono a sortire, quando gli si impone di tacere in cuore al cuore..

E continuare a sprecarne di nuove, è il compito di noi studenti.

lunedì 18 febbraio 2008

Guerra dei palazzinari

La guerra dei palazzinari che continuerà a sommergerci di cemento: http://www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=6325&T=A

martedì 12 febbraio 2008

Il passaggio del testimone

La mia Professoressa di Italiano che non sentivo da un pò, e che quando ero ancora tra i banchi, con ancora tutti i capelli, tanta energia, ed infinite speranze, mi lusingava con voti mai sotto l'otto; mi ha scritto che avrebbe voluto passare il testimone dell'insegnamento ad un ragazzo come me. Questo mi ha fatto interrogare su che tipo di insegnante sarei stato. Devo innanzitutto dire che non ci ho mai pensato ad insegnare, sopratutto una materia come l'Italiano. Quando mi sono diplomato, ero indeciso se all'università iscrivermi ad Ingegneria oppure ad Italiano. Proprio nell'ultimo anno avevamo un assistente di laboratorio di elettronica, che era iscritto a Lettere, e che ci spiegava che la sua passione elettronica la sfogava nel lavoro, mentre quella per la letteratura nell'università. Alla fine mi sono iscritto ad Ingegneria, per poi passare a Scienze dell'Informazione, e da quel momento è iniziato un lento ma progressivo allontamento dall'entità Italiano.

All'università, purtroppo, l'Italiano non è una materia considerata, né molto praticata. I compiti scritti sono dimostrazioni matematiche, che necessitano di poche parole di spiegazione. Per quanto riguarda gli orali, non mi ricordo di nessuna richiesta in merito ad uno sforzo di espressione, del resto nemmeno le lezioni erano un esempio di retorica, tra un professore con un marcato accento napoletano, e le sue simpatiche lezioni dialettali, e un professore ungherese che a dire la verità, l'italiano lo aveva imparato abbastanza bene.

E' vero che mi rimaneva quella alta media di libri letti all'anno per essere un ragazzo e sopratutto italiano, ma forse questa unica frequentazione non si è dimostrata sufficiente. Non sarei mai stato in grado di insegnare. La mia ignoranza troppo ampia, la mia oratoria sempre considerata inferiore al mio saper scrivere, e la pazienza, anche questa inferiore a quanto se ne richiede in una professione così difficile.

No, credo proprio che sarei stato un pessimo insegnante. Forse c'è solo una cosa in cui forse avrei avuto qualche possibilità. Leggevo qualche tempo fa, Come un romanzo di Pennac, nel quale lui descriveva il suo vecchio professore, che entrava in classe con una pila di libri, li posizionava sulla cattedra, ne prendeva uno, e aprendolo cominciava a leggere.

Ecco forse, l'immensa passione per la lettura, quella l'avrei saputa divulgare.

martedì 22 gennaio 2008

Java ostacolo alla formazione di solide basi per gli studenti

Nell'articolo Computer Science Education: Where Are the Software Engineers of Tomorrow?, Robert B.K. Dewar e Edmond Schonberg, illustrano i loro dubbi in merito alla adozione di Java come primo linguaggio di programmazione, nelle facoltà di Informatica. Nel doppio ruolo di professori della New York University e fondatori di una società specializzata in programmazione con Ada, ravvisano come questa scelta abbia indebolito la preparazione degli studenti, e come diventi ogni giorno più difficile recrutare personale dotato di solide basi. Secondo gli autori, negli ultimi anni, si stanno concretizzando alcuni trend negativi nell'insegnamento di Scienze dell'Informazione:
  • Il contenuto teorico matematico nei corsi di Informatica si sta riducendo
  • L'acquisizione di competenze in diversi linguaggi di programmazione sta lasciando il posto ad un approccio di ricopiatura di pezzi di codice, l'utilizzo di grosse librerie o package specializzati
  • Le competenze acquisite sono insufficienti per l'industria del software odierna, mentre invece sembrano indicate per l'industria dell'outsourcing e così si producono professionisti facilmente sostitubili.

Ma quali sono le ragioni che li inducono a pensare che non sia corretta la generale adozione di Java come linguaggio di programmazione nei corsi introduttivi. Sicuramente la popolarità del linguaggio nell'ambito delle applicazioni Web e la relativa facilità con cui permette anche ai novizi di creare programmi dotati di grafica ha favorito questa scelta, ma verificano le difficoltà già nel primo corso di sistemi. Gli studenti hanno difficoltà nello scrivere programmi privi di interfaccia grafica, non riescono a percepire la relazione tra il sorgente e le elaborazioni hardware e non riescono ad entrare nella semantica dei puntatori.

Mi sembra molto chiaro il principio che spiegano in merito alla bellezza della programmazione. L'essenza della programmazione consiste nella riduzione di processi complessi in una serie di semplici operazioni primitive. Il linguaggio Java, secondo gli autori, invece di adattarsi a questa essenza, propone un approccio alla "idraulico in un negozio di ferramenta": rovistando in una moltitudine di cassetti - package - si arriverà a trovare un qualche attrezzo - classe - che più o meno è adatto a fare quello che ci serve. Come lo fa non è importante. Questo porta gli studenti ad essere dei confezionatori di pezzi di programma, ma non dei programmatori.

Un altro problema che individuano nell'uso delle librerie Java e dei framework è il fatto che gli studenti non riescono ad avere la percezione del costo di runtime di quello che producono, perchè è estremamente difficile ricostruire ciò che ogni metodo chiama e tutto il codice eseguito.

Devo dire che le ragioni esposte non mi convincono molto se applicate solo a Java. Sembra più che altro che si stia facendo una critica alla programmazione orientata agli oggetti, perchè le problematiche esposte si possono facilmente applicare a tutti quei linguaggi che si basano su questo paradigma. Ma del resto, chiariscono nel proseguio dell'articolo, che considerano importante imparare il Java, ma come competenza aggiuntiva.

Quindi per chiarire riassumendo, i due professori ritengono che come primo linguaggio di programmazione, per formare basi solide, non sia adatto un linguaggio object oriented, ma piuttosto un linguaggio imperativo, e sopratutto non si debba praticare un unico linguaggio, ma vederne diversi.